Otto domande a Mario Sasso

 

 

Mario Sasso

 

Intervista a cura di ANNALISA FILONZI

 

Gli artisti e la televisione. Tra dissenso e sperimentazione. Chiacchierata con il videoartista Mario Sasso, inventore della comunicazione breve della sigla in Italia.

Considerato uno dei padri dell’arte elettronica in Italia, Mario Sasso (Staffolo, Ancona, 1934, vive a Roma) ha esordito come pittore e ciò fa conservare a tutte le sue opere un senso di plasticità insolito per le immagini video. Primo vincitore italiano, con il musicista Nicola Sani, della Nica d’oro al Festival internazionale d’arte elettronica di Linz nel 1990 con il video Footprint, Sasso ha dedicato molti anni del suo lavoro alla televisione, in Rai, dove è stato art director e dove, a partire dalla sigla per la trasmissione Non è mai troppo tardi del ’58, non ha mai smesso di sperimentare, attraverso questo genere, le più innovative tecnologie a disposizione nei vari momenti, dai primi 3D (sigla per il tg2 del 1984 e per il tg3 del 1986) alle prime rielaborazioni al paintbox (antenato di Photoshop) per la sigla di Grandi Mostre (1986), ispirata ad un video sulla Gioconda esposto alla Biennale di Venezia. Negli anni ’90 la sua ricerca è stata dedicata alle videoinstallazioni: con la Torre delle trilogie, opera monumentale di 7 metri di altezza con montaggio verticale dell’immagine, commissionata dall’azienda Guzzini, ha vinto il Premio Guggenheim nel 1999. Negli ultimi anni si è dedicato prevalentemente alla pittura digitale in cui il mezzo informatico contribuisce ad una sempre maggiore smaterializzazione delle immagini e del segno distintivo dell’artista, quello della mappa urbana. Data la sua esperienza, rivolgiamo a Mario Sasso alcune domande che riguardano appunto il rapporto tra artisti e mass media, in particolare la televisione, un tema su cui desidero riflettere in quanto riemerge ogni volta che una mostra si occupa di videoarte in modo analitico, come in due esposizioni svoltesi questa estate: Moving Image in China: 1988-2011 la più completa retrospettiva mai presentata in Italia sulla videoarte cinese al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato e L’altro Pascali, un itinerario attraverso le opere di Pino Pascali per cinema e televisione alla Fondazione Pescheria Centro arti visive di Pesaro.

 

 

Mario, facciamo un salto indietro nel tempo e partiamo dal testo che Victor Misiano ha scritto per il catalogo della tua mostra antologica a Mosca, al Museo di Arte Moderna, dell’ottobre 2008: Misiano dice che ti sei formato nell’ambiente televisivo “sperimentando direttamente il potenziale creativo dei mass media”. Ci ha sempre colpito il fatto che il critico russo sottolinei questa differenza con gli artisti russi, che invece guardano con sospetto ai mass media e alla comunicazione di massa per ragioni politiche e culturali.

Questa domanda è particolarmente complessa e articolata, occorre partire dagli anni ’20, quando gli artisti sovietici inventarono la comunicazione di massa, basti pensare al grande artista Rodčenko con la fotografia, a El Lissitzky con la grafica, a Majakovskij nel teatro, a Dziga Vertov nel documentario cinematografico. Questa enorme creatività è stata schiacciata dal sistema staliniano che ha condizionato la comunicazione di massa, resistendo fino all’era di Putin. Per questo motivo gli artisti contemporanei criticano la televisione e non trovano connessioni per poter collaborare con la stessa.

 

Anche nella mostra di Prato sulla videoarte cinese, i curatori partono con una sezione in cui negli anni ’80 gli artisti esprimevano la propria protesta contro il sistema con video di critica alla televisione...

Questo vale anche per la Cina, gli artisti che usano i linguaggi elettronici, si ribellano alla sola idea di far riferimento alla televisione. Hai fatto il caso di due grandi potenze orientali, ma questo accadeva, per altri motivi, non legati alla politica ma al predominio commerciale dei messaggi televisivi, anche negli Stati Uniti d’America, dove Nam June Paik, in quella che è oggi considerata la prima esposizione di videoarte, nel 1963, sperimenta gli effetti delle onde sonore della musica elettonica sulle immagini video provenienti dal tubo catodico, in aperta polemica con una televisione appunto dominata da scopi commerciali.

 

E in Italia qual è stato il rapporto degli artisti con i mass media? Quale è stata la tua esperienza?

In Italia, fin dai suoi esordi, la televisione, che nei primi anni coincide con l’azienda pubblica della Rai, recepisce l’insegnamento del Manifesto Blanco dello spazialismo di Lucio Fontana del 1953 circa, il quale affermava che le antiche immagini immobili non soddisfacevano più le esigenze dell’uomo nuovo e teorizzava un’arte fatta di colore, suono e movimento. La televisione in quegli anni era fatta di trasmissioni come Non è mai troppo tardi che aveva uno scopo formativo; l’Approdo, un settimanale su poesia, teatro, letteratura; Franco Simongini conduceva tutti i pomeriggi un programma di commento delle opere d’arte; artisti come Burri, Guttuso, ecc. erano ospiti quotidiani... fino agli anni ’80 l’obiettivo era dare cultura alla gente. Io tutta la vita ho realizzato sigle. Era un genere che all’inizio non esisteva se non come stacchetti musicali, ma sin dall’esordio hanno avuto questa caratteristica di libertà creativa che hanno conservato a lungo, perché dovevano solo fare da copertina ad un tema, non tenere le persone inchiodate davanti allo schermo. Inoltre nei primi anni ’80 in Europa nascono i primi festival d’arte elettronica - di Linz in Austria, di Camerino in Italia, di Locarno in Svizzera, con la partecipazione dei grandi studiosi dell’immagine elettronica: Vittorio Fagone, René Berger e Marco Maria Gazzano solo per citarne alcuni – quindi anche l’attenzione della critica militante si fa interessante perché questi studiosi esplorano non solo la parte concettuale dell’opera video, ma anche quella tecnica e specifica del linguaggio stesso.

 

Hai parlato di libertà creativa della sigla. A che cosa era dovuta questa libertà?

Sicuramente a dei dirigenti che venivano dal mondo intellettuale, erano molto colti, individuavano dei temi e lasciavano un ampio margine per creare, in modo che l’arte arrivasse alla gente. Capivano i bisogni spirituali del pubblico e delle trasmissioni e facevano lavorare per loro gli artisti. Nessuno diceva come dovevi fare. Per essere ancora più libero io ho cercato sempre di non lavorare per le sigle degli sceneggiati o delle riviste di spettacolo, perché lì la personalità dei personaggi poteva essere troppo forte e quindi in qualche modo condizionarmi. E infatti appena ho sentito che la comunicazione delle sigle era in pericolo ho concluso la mia collaborazione interna con la Rai, scegliendo però di lavorare come art director per RaiSat, con Massimo Fichera, che è recentemente scomparso, l’ultimo di questi grandi dirigenti illuminati; il nuovo primo canale satellitare della Rai, proprio nel momento in cui veniva progettato, riceveva un’impostazione tutta improntata sui segni dell’arte contemporanea: le sei sigle istituzionali, create da me, alludevano ai sei linguaggi principali del ‘900: il Futurismo, la Metafisica, l’Astrazione, l’Arte concettuale, la Transavanguardia, la Videoarte. A completare il palinsesto, le tredici rubriche fisse abbinavano il segno di un artista ad un diverso genere televisivo: Gianfranco Baruchello per i Film, Mario Canali per il Documentario, Ugo Nespolo per Musica pop rock jazz, Emanuele Luzzati per il Teatro, Mario Sasso per i Magazine, Fabrizio Plessi per le Fiction, Enzo Cucchi per le Soap opera, Giacomo Verde per la Musica classica, Mario Sasso, in sostituzione di Mario Schifano per il Ballo classico, Nam June Paik per Proxima, Luca Patella per Scienze, Alighiero Boetti per Memory, e Studio Azzurro per Est Europa.

 

Anche oggi il genere della sigla è libero da condizionamenti?

No, Raisat è stata l’ultima esperienza. Le contaminazioni commerciali e politiche iniziate a fine secolo hanno lasciato il “segno”: ora si cercano soluzioni da “carta patinata”, graficamente  eleganti, ma prive di metafore culturali e concettuali, che nulla hanno a che fare con la ricerca libera degli artisti.

Non che l’azione politica fosse contro la cultura, ma semplicemente ha tolto degli spazi e si è iniziata a dare maggiore importanza all’audience. Ora lo spazio dedicato a queste che erano piccole opere d’arte viene da una parte mangiato dai tempi sempre più lunghi della pubblicità, dall’altro si va a cercare un’immagine patinata, elegante formalmente ma priva di contenuti che illustri il logo dell’azienda e niente altro. Non ci deve essere emozione, non si devono far passare messaggi, la sigla non deve più gridare perché andrebbe a disturbare con le sue idee lo spazio commerciale della pubblicità. Oggi la televisione non cerca più artisti che lavorino per lei, come è accaduto a me. E la videoarte è divenuta qualcosa che non riguarda più questo mezzo, ma i musei e le gallerie.

 

Quest’estate una mostra al Centro Pescheria di Pesaro su Pino Pascali ha messo in mostra i suoi lavori per la televisione. Tu hai lavorato accanto a questo artista quando era aiuto scenografo in Rai, che cosa ne pensi?

La mostra di Pino Pascali a Pesaro mostra le due facce della produzione televisiva: la prima dedicata agli spot pubblicitari, molto bella, ma che tuttavia non nasconde le insidie e i condizionamenti commerciali, rispetto alle sigle dove è evidente la maggiore possibilità di fare ricerca, sia grafica sia concettuale; aggiungerei che in Pascali quest’ultima è fortemente legata alla produzione che invade gli spazi tridimensionali, quella legata all’Arte Povera.

 

Oggi quando guardiamo un video spesso ci troviamo di fronte ad opere molto diverse per durata, genere, destinazione... non solo perché cambia l’artista lo stile e il messaggio, ma perché sotto questo nome si celano prodotti di diverso tipo, creando una certa confusione. Per te che cosa è la videoarte?

La videoarte è un linguaggio giovane, c’è ancora molto da sperimentare; oggi i giovani sono costretti ad associarsi per realizzare produzioni complesse, si sente la mancanza di laboratori come quello che Lola Bonora aveva creato negli anni ‘80 a Ferrara, e che ora da molto tempo ha cessato la sua produzione. Questa mancanza di punti di riferimento fa rinunciare gli artisti ad approfondire le tecniche, non le tecniche di ripresa, montaggio, ecc., ma ad andare a cercare proprio lo spirito, l’anima del linguaggio.

 

È a questo che serve il laboratorio?

Sì, se hai un laboratorio dove sperimentare puoi verificare subito il tuo progetto, altrimenti costerebbe troppo. Purtroppo mancano sia i mezzi che gli spazi, nessuno si pone il problema di finanziare la ricerca su un linguaggio che camminerà lungo questo secolo e andrà avanti. Non si tratta solo di avere macchine e tecnologia a disposizione, ma anche persone, tecnici in grado di usarli e con cui l’artista possa collaborare. Oggi un video bello, poetico, è anche quello che puoi fare da solo, anzi è più facile oggi con i mezzi che ognuno di noi ha a disposizione (fotocamere, telefonini, ecc.), ma questa è un’altra cosa. Se il tuo obiettivo è fare ricerca sul linguaggio oggi è difficile. Avere a disposizione un laboratorio significa lavorare a fianco di più esperti tecnici (per il montaggio, le riprese, le luci, ecc., ognuna delle quali ha una sua specificità) che ti svelano i segreti della macchina, e tu li interpreti a livello culturale. Avere a disposizione un laboratorio non ti fa diventare un artista, ma se lo sei già, e per giunta con la curiosità di queste cose, hai la possibilità di realizzarla con i mezzi giusti. Per me la ricerca è all’interno del linguaggio; non potendolo fare, oggi i giovani si rifugiano in video narrativi, che sono piccoli raccontini.

 

www.mariosasso.net

 

Articolo correlato: Catanzaro, Fondazione Rocco Guglielmo, Corpo elettronico

 


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