Il Palazzo Enciclopedico: il database e le sue metafore



L’eliminazione dei confini tra arte e non arte a favore di un taglio antropologico culturale, oggi ha richiami immediati con altri dispositivi di stoccaggio, conservazione e condivisione dei saperi senza distinzione. Questo spazio ovviamente è la Rete.

 

 

55. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia. Il Palazzo Enciclopedico

 

 

 

di FRANCO SPERONI

 

 

 

La prossima Biennale d’Arte di Venezia (1°giugno, 24 novembre 2013), curata da Massimiliano Gioni, prende il titolo da un progetto dell’artista auto-didatta italo-americano Marino Auriti che il 16 novembre 1955 depositava presso l’ufficio brevetti statunitense l’idea di un museo immaginario che avrebbe dovuto ospitare tutto il sapere dell’umanità, collezionando le più grandi scoperte fatte dal genere umano, dalla ruota al satellite. Auriti lavorò a questo progetto in un garage dello stato della Pennsylvania, costruendo il modello di un edificio di centotrentasei piani che avrebbe dovuto raggiungere settecento metri di altezza e occupare più di sedici isolati della città di Washington. L’impresa rimase solo un progetto, testimone del sogno di racchiudere la conoscenza universale in uno spazio in grado di contenerla.
Le suggestioni offerte da questo tentativo sono molte. A cominciare dalle misure che rimandano per forza di cose all’indeterminato. La sua stessa incompiutezza, col senno di poi, non è tanto segno di un’utopia quanto di una profezia. Ciò che attraversa il tempo, infatti, non è tanto il sogno irrealizzabile di un edificio che contenga tutto ma l’intuizione di un dispositivo che possa connettere i vari saperi. La prima domanda che sorge è infatti se Auriti tendesse all’impresa titanica della totalità cristallizzata in un luogo, oppure all’impresa profetica di rendere immaginariamente percepibile l’intuizione della quantità connessa. Il desiderio che il sapere o meglio i saperi possano incorporarsi in un edificio è l’intuizione della conoscenza come relazione per la quale si tenta una soluzione formalmente simbolica. La storia è ricca di riferimenti approssimativi a questo tentativo e che hanno anticipato il senso della conoscenza intesa come necessità di ampliamento dei confini fino ad includere tutto. Il valore profetico è proprio questo: non conta tanto la realizzabilità dell’impresa quanto il sentirne la necessità che troverà, magari dopo, le sue soluzioni mediali, perché questo tipo di impresa è inevitabilmente un work in progress che ottiene subito due risultati: creare una forma mentale che va ben al di là delle forme materiali conosciute e indicare la necessità della connessione dei saperi per una cultura matura, al di là della miopia degli specialismi settoriali.

Vengono in mente, di conseguenza, opere apparentemente distanti tra loro da un punto di vista restrittivamente formale ma in realtà tutte nella stessa direzione: dal Merzbau di Schwitters alla Scatola in valigia di Duchamp, dalle Capsule del tempo di Warhol alla Base del mondo di Manzoni, senza dimenticarci i teatri della memoria rinascimentali, le Wunderkammern e, last but not least, i sotterranei di Xanadu, la villa di Charles Kane, protagonista di Quarto Potere di Orson Welles e il museo immaginario di Malraux.  Come dire, giusto qualche flash su una sensibilità moderna mai finita che è quella per i frammenti e le rovine, per la storia come processo e non come monumento che trova punti di riferimento costanti nelle riflessioni ineludibili di Georg Simmel e di Walter Benjamin, nonché nel modello di Atlante della memoria di Aby Warburg.L’eliminazione dei confini tra arte e non arte a favore di un taglio antropologico culturale, oggi ha richiami immediati con altri dispositivi di stoccaggio, conservazione e condivisione dei saperi senza distinzione. Questo spazio ovviamente è la Rete. Un’esposizione “fisica”, delimitata ad un territorio circoscritto, dentro un contesto storico iperdeterminato come la città di Venezia, dentro una storia espositiva erede delle Esposizioni Universali figlie della rivoluzione industriale, può anche assumere, forse, a colpo d’occhio il valore di “fare il punto”. Cioè fermare il flusso della comunicazione per “contenere” in un’immagine  - quella della Biennale con la sue memorie – l’indeterminazione della Rete ma può anche, e questo credo dovrebbe essere l’effetto più interessante, connetterci con maggior forza e consapevolezza dentro il flusso delle relazioni proprio della navigazione ipertestuale. Provocare l’ “ansia ermeneutica”  - l’emozione ermeneutica – come nella conferenza stampa ha sostenuto il presidente Paolo Baratta, decisamente avvicina le intenzioni del progetto di Gioni a quella tipologia di mostre dove il curatore mette in scena un racconto attivando le possibilità ipertestuali che esso contiene, il suo valore metaterritoriale, utilizzando in tal senso un dispositivo forte come una città storica che in sé può funzionare da volano di relazioni articolate. Sarebbe questa la messa in scena dell’apertura non come dato formale ma come connessione ermeneutica: una prassi curatoriale stimolante e creativa che affonda le sue radici nel passato prossimo di rassegne celebri come quelle curate da Harald Szeemann (da quando le attitudini diventano forma alla Kunsthalle di Berna nel 1969, alle sue Biennali dAPERTutto del 1999 e Platea dell’umanità del 2001) senza dimenticare la recentissima Documenta 13 di Kassel del 2012, curata da Carolyn Christov-Bakargiev.
Il taglio antropologico, come sostiene Gioni, sfuma le distinzioni tra artisti professionisti e dilettanti, tra outsider e insider, per concentrarsi in particolare sulle funzioni dell’immaginazione e sul dominio dell’immaginario. Un feeling diretto, quindi, col mondo dei Socialnetwork. Piattaforme popolari come Youtube o Facebook, ad esempio, costruiscono banche dati che sono espressione di un immaginario connesso. I frammenti estrapolati da “capolavori”, la loro stessa rimasticazione a bassa definizione, il loro rilancio dentro contesti privati ne distruggono la forma ma ne esaltano, paradossalmente, l’aura. Frammenti di storia che entrano nell’indeterminazione rovinistica dell’uso personale, là dove l’aura coincide con l’autobiografia dell’utente. È più che mai nella Rete, infatti, che sperimentiamo come l’immaginario una volta definito collettivo crei agglomerati gassosi di sentimenti condivisi non meno importanti per capire un’epoca.L’intenzione di Gioni è interrogarsi sulla possibilità di costruire un’immagine del mondo quando il mondo stesso si è fatto immagine. Forse bisognerebbe dire quando il mondo è fatto da più immaginari connessi. In questo interrogativo, a ben vedere, è contenuta la fatica della museografia, della cornice narrativa, della possibilità di visualizzare un brainframe rendendolo il simbolo di un’epoca. Fermo restando che visualizzare non significa necessariamente fissare, bloccare la traccia incorniciandola ma inventare il modo per seguirla e interpretarla. C’è dunque la possibilità che visualizzare significhi esperire in maniera diversa, sentire l’indeterminato, vivere il confine come punto di contatto e non muro che recinta. Questa sembra essere la scommessa interessante dello sforzo curatoriale. Il Palazzo enciclopedico lo lascia sperare. Vedremo poi nei dettagli, quando il Palazzo ci accoglierà, se il sogno di Auriti, immerso nella potenza evocativa di Venezia, sarà rilanciato nella dimensione aperta dell’immaginario Wiki o se prevarrà la sistematizzazione illuminista dell’Encyclopédie. Questo del resto è il problema della museografia ieri e soprattutto oggi, nell’epoca della connessione digitale, e dentro c’è lo sforzo continuo dell’arte contemporanea per essere del proprio tempo.

 

 


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