di Carmen Lorenzetti
Christian Marclay
Venezia
Giardini e Arsenale
54. Esposizione Internazionale d’Arte
4 giugno - 27 novembre 2011
(POSTINTERFACE) - Sedimentate le impressioni scaturite dalla faticosa visita alla Biennale, proviamo a vedere cosa è rimasto focalizzato nella memoria della mostra ILLUMINAZIONI curata da Bice Curiger, che si svolgeva sia al Padiglione Italia dei Giardini, sia all’Arsenale. Prima di tutto il concetto che sta dietro all’esposizione, qualcosa che si riferisce in primo luogo alla luce, al pensiero o meglio all’intuizione che è il punto di partenza della scoperta scientifica come della produzione artistica in senso lato, appare un punto di vista generico che poco ci racconta della realtà artistica e culturale contemporanea. È un pensiero vecchio, su cui si sono affaticati per anni i ricercatori dell’estetica soprattutto ottocentesca romantica, dietro esiste anche il concetto obsoleto di genio (cui evidentemente si è peraltro ancora legati). C’è poi il gioco di parole che riferisce il tema anche al concetto di nazione e qui saremmo ad un tema più scottante, che si inserisce all’interno di problematiche politiche economiche che vertono da una parte sulla globalizzazione, dall’altra – affacciandoci ai fatti in nord Africa e medio Oriente – riguardano le proteste nazionali, che rivendicano uguaglianza ed identità all’interno del sistema-stato, la problematica riguarda quindi il localismo e la rivendicazione di una nazionalità. Ma tornando al tema portante della luce. Il nodo da cui si dipana la mostra e che costituisce anche il saggio più corposo all’interno del catalogo (la tavola rotonda) è la pittura manierista fortemente connotata dalla luce di Jacopo Tintoretto. La forzatura nel creare un legame tra un pittore del Cinquecento ed il contemporaneo è evidente e gli artisti che hanno seguito in maniera pedissequa il tema sono poi risultati piuttosto banali. Penso alla scomposizione dei colori del quadrato di Mondrian di Ryan Gander; ai tubi al neon di Navid Nuur, che si differenzia dal lavoro storico di Gianni Colombo, solo per il fatto che lascia in evidenza i fili che collegano i vari neon; ai moduli quadrati trasparenti e colorati, messi a cortina dello spazio di Anya Titova. Forse anche alle scenografiche scale di Monica Bonvicini, che allude così agli spazi avvitati di Tintoretto e ancora ad una complessa macchina teatrale si rifà la tenda che fa da fondale all’installazione. Più interessante, sia per la novità dell’idea, sia per la complessità spaziale che ne deriva è il concetto dei parapadiglioni presenti sia ai Giardini che all’Arsenale, progettati da un artista, che poi a sua volta invita altri artisti ad esporre in queste piccole architetture abitabili. Al Padiglione Italia si trova l’architettura a stella irregolare della polacca Monika Sosnowska, una struttura che crea senso di spaesamento e soprattutto di disagio per le forme acutangole, antimoderniste rivestite di normale carta da parati, all’interno delle quali sono ospitate le fotografie in bianco e nero dell’artista sudafricano David Goldblatt, testimone di una realtà deturpata e povera del suo paese e l’installazione del vincitore del leone d’argento come giovane artista Aaron Mirza, che usa l’elettricità per tenere in sospensione un frammento di lamina d’oro. Attorno al concetto di elettricità e di suono campionato che si materializza dalla tensione ed energia della luce rimanda il suo neon rotondo inserito all’interno del parapadiglione da lui progettato all’Arsenale, che riprende uno degli spicchi della stella di Sosnowska, traducendo però la linearità del modello in una superficie fatta di forme poligonali, che richiamano cristalli grezzi e scuri e intitolato The National Apavillon of Then & Now. Si viene accolti all’Arsenale dal parapadiglione del cinese Song Dong, incentrato sulla ricostruzione autobiografica della casetta dei suoi genitori, parte del progetto Intelligence of the poor, che celebra l’antica parsimonia della gente più vecchia non ancora toccata dal consumismo e ancora sul vecchio e sullo scarto di basa il progetto Enclosure Movement, una struttura divisa in gruppi chiusi composta da cento ante di armadi. Altro parapadiglione è quello di Franz West, dove l’artista ha ricostruito il suo studio-cucina della casa di Vienna, pieno dentro e fuori di opere d’arte di artisti invitati da lui. Efficace è l’installazione di Fabian Marti, che organizza una strana caverna fatta di cartoni rettangolari, disposti a stalattiti sulle quali all’esterno sono poste ceramiche optical e all’interno delle quali invece viaggia un video con paesaggio di palme assolate girato con il cellulare. Spettacolare è l’installazione del vincitore del Leone d’Oro Christian Marclay, che con The Clock (2010), che in un found footage di film dei 24 ore in cui appare un orologio, una sveglia il tempo virtuale coincide impietosamente con quello reale dello spettatore che quindi ha la sensazione del tempo che scorre meccanicamente, in uno scivolamento continuo del presente nel passato. D’effetto è anche la scultura del Ratto delle Sabine gigantesca in cera che brucia lentamente, mentre una figura egualmente in cera di più grande del vero, l’artista Rudolf Stingel, brucia ugualmente, anche quest’opera di Urs Fischer sembra riflettere sul tema del tempo e poi anche della sparizione e della morte. Più raccolte l’installazione di Luca Francesconi, che insieme a sculture di donna in marmo e bronzo mescola elementi di scarto e banali, in un interessante accostamento e assortimento spaziale e quella di Elisabetta Benassi, che in The innocents abroad (2011) presenta nove lettori di microfilm con fatti importanti e meno della storia del 900, una riflessione antropologica sui mutamenti della società. Affonda nel mito della terra sudafricana in connessione con le problematiche dell’oggi l’installazione variopinta con profusione di copertoni di Nicholas Hlobo. Ho privilegiato in questo breve excursus le installazioni di più ampio respiro, più d’impatto, ma ci sono anche i video che meriterebbero un racconto a parte e magari qualche curiosità come le teste animatroniche di Nathaniel Mellors, bizzarre teste parlanti e semoventi, accompagnate da un video sempre orientato, come le due teste, al linguaggio e alla sua convenzionalità soprattutto nell’ambito politico o televisivo.